Al Gay Pride di Roma, giusto ieri, sfilavano a migliaia giovani viziati e coccolati, ignari – viene da credere – del vero prezzo di una libertà troppo spesso data per scontata, che in troppi nel mondo ancora pagano con la vita.
Bandiere palestinesi al vento, dimostravano non solo una distorta solidarietà verso chi, per statuto, reprime i diritti altrui, ma anche un’atrofia – oramai pressoché totale – dello spirito critico, atrofia che rende complici di chi, queste famose libertà che si dice di voler difendere, le disprezza.
Una bulimica esacerbazione, insomma, del concetto di «diritto», concetto vuoto se non trasposto anche nel suo essenziale rovescio, ossia il dovere.
Come scriveva Simone Weil, i diritti perdono infatti di significato se non nascono da un dovere riconosciuto. La libertà che oggi si invoca come diritto astratto risiede in, ed è un concetto frutto di, chi ha consapevolmente scelto di servire qualcosa di più grande del sé.
Sagi Golan, Z”L, aveva trent’anni il 7 ottobre 2023; pochi giorni dopo avrebbe dovuto sposare il suo compagno, Omer. Insieme ad altri omosessuali, era stato accolto a braccia aperte nell’IDF, l’esercito israeliano. Quella mattina, sentite le prime notizie del pogrom in corso, lasciò tutto per raggiungere la sua unità d’élite, offrendosi volontario. «I asked him not to be a hero», ricorda Omer, che oggi si batte per alcune modifiche legislative inerenti le coppie gay.
Sagi cadde nello scontro con i terroristi palestinesi, nella battaglia di kibbutz Be’eri, quella sera stessa, avendo contribuito, in poche ore, a mettere in salvo numerose persone.
Come molti giovani israeliani, Sagi non era «solo» un soldato. Aveva, anzitutto, una brillante vita privata e professionale; era un esperto di high-tech. Perché a partire dal senso civico e fino all’atto etico supremo, la società dello Stato ebraico ha molto da insegnare all’Occidente.
Al Pride, si diceva, le bandiere palestinesi erano ovunque fra la folla, sui carri, virtue signalling di rara empietà, ultima contraddizione di termini. Le bandiere di chi ha strappato Sagi Golan a Omer, di chi per mesi ha tenuto ostaggio Emily Damari che, in quanto lesbica, per sopravvivere a orrori sin troppo immaginabili, sapeva di dover anzitutto tenere nascosta la propria identità. Per loro nessun riconoscimento, nessuna bandiera, mai.
È il parossismo del privilegio, quello cui si è assistito ieri e innumerevoli altre volte nell’ultimo anno e mezzo. È l’assenza di qualsivoglia riflessione, lo sciocco rincorrere una moda di solidarietà mal riposta: verso i carnefici, verso chi – a torto – è dipinto come l’underdog del momento. Simboli tutti di una società che ha esaurito ogni spinta morale.
Come per le battaglie femministe, anche quelle per i diritti civili (già portate avanti, in Italia, da parlamentari e attivisti di caratura ben diversa dagli innominabili attuali) si sono trasformate nella negazione di se stesse.
Anziché amare la civiltà che, dopotutto, ha permesso una sostanziale parità di diritti, e battersi per quei milioni che, altrove nel mondo, di tali diritti non possiedono neanche l’ombra, si sposano le cause di chi, attivamente, li rinnega e perseguita.
Giovanissime donne libere, uomini comuni, padri di famiglia, gay e lesbiche in questi mesi – ma è così da anni, da decenni – rischiano la vita per difendere il proprio Paese, il proprio futuro. Da due giorni, anche contro il Regime islamico, che da quarantacinque anni opprime gli iraniani e d’Israele minaccia l’esistenza. Un regime che contro la libertà femminile e sessuale ha dichiarato, e mantiene, una perversa «guerra santa».
Gli occidentali – i privilegiati, i coccolati – che ieri sfilavano con le bandiere di un culto di morte, senza più valori sputavano sul sacrificio di chi anche per loro ha combattuto, e tuttora combatte.
C’è un passo nell’ultimo libro di Douglas Murray che perfettamente cattura tale contraddizione di base, fra le principali chiavi interpretative del cortocircuito presente:
«Mi colpì allora – scrive Murray – come mi era successo mille volte l’anno precedente, quanto tutto fosse al contrario. Giovani membri di istituzioni occidentali giudicavano le azioni dei loro coetanei in Israele. Lanciavano contro di loro insulto dopo insulto, riesumando ogni antico blood libel, rivisitato in chiave moderna. Eppure, erano proprio i loro coetanei israeliani quelli a cui avrebbero dovuto guardare, non come capri espiatori, ma come esempi. Qualunque cosa ci riservi il futuro in Occidente, [possiamo] solo sperare di essere così fortunati da ritrovarci una generazione come quella prodotta da Israele. […] Di tutti i soldati che ho visto in guerra, nessuno traeva piacere dal proprio compito. […] Lo svolgevano non perché amassero la morte, ma proprio in quanto amanti della vita. Per la sopravvivenza delle loro famiglie, della loro nazione, del loro popolo. Anche i più laici fra loro sanno che lo stile di vita che la maggior parte di noi dà per scontato, tale non è. Sanno che non vi è possibilità di far festa a Tel-Aviv, di innamorarsi, di costruire una famiglia o vivere un’esistenza colma di significato, se non si è disposti a combattere per tutto questo».
La vera giustizia, per parafrasare ancora una volta la Weil, nasce dall’attenzione e dalla consapevolezza del dovere. I diritti non si proclamano, si meritano – nel momento in cui si riconosce quanto all’altro è dovuto, e non ciò che si pretende per sé. E in questa logica si comprende la forza morale di chi, come Sagi Golan, ha scelto il dovere al posto del privilegio, il sacrificio al posto della vuota rivendicazione del sé, raggiungendo così il più alto grado di libertà.